GIN Nicolò - Fantasioso
Assurdo! È arrivato il momento di narrare, prendo fiato, di nuovo, è quasi una mistura tra un attacco di panico e una gran voglia di raccontare qualcosa fuori tempo, fuori spettacolo. Fuori le gesta eroiche allora: fate uscire i maghi, fate uscire le streghe e fate uscire pure gli orchi. Regni l’assurdo!
Non serve spiegare, presto, fatemi scrivere di questo mondo che tracciai con matite da bambino e fatemi creare le vicissitudini di questo o quel popolo, di questo o quel gran signore, di questo o quel grande antagonista! Ma chi sono io per giudicare ciò che uscirà dalle mani, mosse sulla tastiera, animate, da grandi maestri! Rivoglio tornare bambino!

Un crescendo minimale di piano, accompagna grandi montagne, alte, alzandosi creano gli oceani, là dove l’acqua invade le fessure lasciate dai grandi sassi. E le montagne germogliano! E la terra si scalda, e si raffredda, e il mare con sé, e si dividono in centinaia di isole, continenti e su uno di questo:

Un uomo si chiede, guardando il mare, che cosa sia la stessa acqua, cosa la rappresenta, qualcuno al villaggio dice: è bagnata, è azzurra, a volte nera di notte, chiara di giorno, onde e schiuma sulla sabbia, sulla ghiaia, salata, a volte dolce, non dolce da condire qualcosa ma quantomeno bevibile. Uno nella grande città disse che è magia, l’acqua è magia, come quella dei grandi maghi, delle piccole fattucchiere e delle belle storie per cui, un giorno, qualcuno ha abbandonato l’aratro per seguirle.

E l’aratro è quel simbolo di un lavoro legato alla terra, dove, ancora per magia, scorre la vita. Certe volte anche lui, un pescatore, si chiede se la marea e la coltura abbiano lo stesso meccanismo. I pesci dopotutto sono ortaggi di mare, si dice. E non sembra esserci nulla di male in questa frase, solo un po’ assurda, non trovate? Ma con chi parlo. Voi troverete l’assurdo pure nel quotidiano, pure nel campo germogliante! E se il pesce non soffre quando preso all’amo, allora non soffre nemmeno l’ortaggio, quindi sono uguali! Non pensate? Ma con chi parlo…
GIN Nicolò - Fuoco
- Sono il Dio del Fuoco Infernale!
Infernale, come quell’aria di quella estate intrisa di fuoco, a SanErt vi erano solo locali che trasmettevano un pazzo urlare parole dall’altro mondo, lo chiamavano MonBuf.
MonBuf era quel genere di avvenimento, dicevano giornali su riviste, che ha scatenato la peggiore metempsicosi nel MonNos, rendendolo di fatto interconnesso con gli altri Mon.
- E vi porto… Fuoco.

Giravo per centinaia di intermezzi pubblicitari, credendo di trovare la giusta meta per trasmettere il messaggio. In una fila di negozi pieni di insegne luminose, in una colonna di città, in una griglia di continenti. Questo era il MonNos, il più abitato, reso tale proprio dall’apertura del Por dieci, venti, anni fa. Non si era ancora ripreso e sembrava non potesse mai riprendersi dalla gigantesca mole di esotismo. Altri Mon uguale miriadi di prodotti, culture e popoli che si riversavano nel Mon per trovare qualche sorta di grazia, di salvezza, di ricchezza.

Giro per strada, la meno trafficata, e mi imbatto in un inserviente che mette apposto un teleschermo, così grosso da occupare metà negozio. Vendevano prodotti del MonTor, alcuni macchinari in grado di semplificarti la vita connettendo il tuo mana alla centralina di quello o quel prodotto. Era l’unico in zona, decisi di entrarci, spostai la tendina e fui davanti a un impero di ciarpame. Nessuna voglia di connettere la mia energia, solo di curiosare. Non infrango nessuna legge.
Il commesso torna dentro, riordina il banco e prepara la cassa.
- Cerca qualcosa?
- Avete per caso dei congegni del MonVor?
- Vendiamo esclusivamente dal Tor, ma penso sia rimasto qualcosa del vecchio proprietario da qualche parte, giù in magazzino.
Chiude la tendina dietro di me, diventa uniforme e impenetrabile, nemmeno la luce riesce a passarci, dietro di essa, sulla strada, compare la scritta: Chiuso.
- Quindi… è da molto che vuoi trasportare quel messaggio?
Mi dice, mentre cambia espressione, serio.
- Quindi cerchi esattamente qualcosa a buon prezzo per eludere i dazi doganali?
- Sì, devo mandare una lettera.
- Non ti chiederò cosa c’è scritto, lo sai benissimo che quello che esce non deve influenzare, altrimenti… MonGab.
- Ci sono stato due anni.
Ride, poi prende una cassa e me la porge. Non è pesante, si intravede dalle fessure un cotone color rosso, un panno che copre qualcosa. La apro, lui mi blocca la mano.
- Non ti fidi?
- Non sono così romantico, penso che un cliente debba prima vedere la merce.
- Se lo apri, muori.
Sento qualcosa contro la coscia, di duro e freddo.
- E allora?, dico io.
GIN Nicolò - Locanda 3.0
Era notte, se ben ricordo, era notte e tutto era muto, intervallato come una sinfonia da un uomo ubriaco e i suoi schiamazzi, da un cane che ululava e da avventori della locanda che entravano anche a quest’ora. Su un materasso dalla fodera di stoffa, colmo di paglia, cercavo di prendere sonno. Guardai fuori dalla finestra a vetro alla mia destra. Vidi una ragazza camminare da sola e parlare:
- Dove sono… non è il mio Mon…
Il mio Mon non lo conosco, non so se esista, perché non ricordo dove sono nato, ne tantomeno chi mi ha creato. So solo che un giorno mi svegliai e qualcuno disse il mio nome: Alceph.

Mi diressi giù per le scale, arrivai in strada, era ancora lì a guardarsi in giro, estrassi il coltellaccio e lo nascosi nella manica. Mi avvicinai, notai avesse due paia di orecchie, un paio da umana e uno da gatto.
Fui sorpreso di notare che si muoveva come se nulla fosse, circondata dalla luce fioca di una solitaria torcia, sopra di lei. Sembrava conoscere meglio di chiunque i dintorni senza mai esserci stata.
Mi avvicinai, e rimisi il coltellaccio nel fodero, eravamo soli.
- Cosa ci fai sveglia a quest’ora?
- Chi sei?
- Le domande le faccio io, che ci fai sveglia? Non sai che dopo una certa ora girano solo malintenzionati?

Notai che portava dei vestiti strani, una stoffa sicuramente non di questo mondo, ne di quelli in cui sono stato. Erano lucidi, rosati, le aderivano alla vita grazie ad una cintura, per il freddo portava solamente un grosso cappotto, adagiato sulle spalle e chiuso da un gancio sotto al collo. I suoi capelli erano del colore dei gatti, due colori marroni, uno chiaro, uno scuro, con qualche chiazza bianca e nera qua e là. Mi dispiaceva saperla persa, ma era in pericolo là fuori.
- Vieni dentro, fa freddo, non trovi?
- Chi sei?
- Te lo spiego davanti a un boccale.

***

Eravamo seduti a un tavolo, con gli sguardi dei commensali, svegli su entrambi, il barista si era mezzo addormentato, ma vedendola entrare spiccò sull’attenti. Preparò due boccali di cervogia dolce e ce li portò.
- Il mio nome è Alceph,
- Natal, piacere. Disse alzando la mano da sotto al tavolo e porgendomela.
- Non è cortese stringere la mano qui.
Rassegnata bevve, e il sapore un po’ la convinse. Dentro quella botte faceva tiepido, fuori stava iniziando a tempestare, una goccia mi avvisò sbattendo contro il vetro.
- Cosa fai, Alceph?
- Si può dire che perda il mio tempo qui dentro a bere.
- Dico, lavori?
-Da quando sono rimasto senza il benchè minimo incarico è così. Prima mi occupavo di qualche (mi avvicinai) affare. Vedi mia cara, se vi è una persona con un cuore qui dentro, quella sono io, (sussurrando) penso che le persone ci stiano fissando da troppo.
- È per i miei vestiti?
- Di certo, vuoi salire a cambiarti?
- Hai vestiti?
- Qualcosa troveremo…

***

Guardare il suo corpo, nudo, vestirsi mi portò in mente mille donne, lei era quel genere di ragazze nella media. Sbirciavo dalla serratura, mentre, nella camera di una vecchia signora, si agghindava da semplice contadina, forse un po’ troppo ricca vedendo che, adagiato al collo portava un ciondolo.
Si avvicinò alla porta, mi scansai.
- Mi stavi…
- Stavo solo controllando che nessuno venisse a infastidirti.
- Come sto?
- Bene, non penso darai nell’occhio ora. I vestiti… beh li venderemo.
- Come?!
- La cervogia costa, e ho un bel po’ di conti da saldare qui a Dougael.
Scosse la testa.
- Dici di no? Beh sei l’unica del tuo popolo qui, sei l’unica donna in una città così grigia e funesta, sei l’unica che si è imbattuta nell’unico uomo con un po’ di cuore qui dentro. Quindi?
- Posso tenere almeno il ciondolo?
- Perché? Ci pagherebbe un bel viaggio lontano da qui…
- È di mia madre.
Sospirai. Dissi: puoi tenerlo, non penso ce ne faremo molto.
***
- Natal?
- Dimmi.
Viaggiavamo da soli, su una strada diretta a Dougara, verso un posto di certo più caldo.
Era larga, le pietre levigate, gli alberi erano radi, i cespugli fitti, un enorme prato tra noi e quella città, nel mezzo solo ciottoli.
- Da quale Mon provieni?
- NosMon, perché?
- Lo sai che non dovresti essere qui.
- Lo so, le leggi doganali sul traffico. Non andare indietro nella tecnologia, o ti perderai.
- E ti sei persa.
- Nel passato, sì.
GIN Nicolò - Il Pianista degli Scheletri
- Perché le persone non capiscono le mie intenzioni?!, penso mentre mi siedo sul trono.
È la mia scienza, analizzare e costruire, congegni e invenzioni, la chiamano magia. Ma vi è qualcosa di più, non è superstizione, è pura tecnica. Osservo uno schermo, delle barre scorrono, ricordando i miei livelli di mana , le mie funzioni cardiache e il calcio.
Segnano una buona quantità di energia, battito assente e calcio regolare nelle ossa.

Ticchetto con la mano il bracciale del trono su cui sono seduto, ticchetto e continuo a muovere le dita, annoiato. Un braccio scheletrico mi porge un boccale, mando giù. Sento il liquido scorrere nella mascella, sulla colonna vertebrale e uscirmi dal bacino, eppure ne sento il gusto. È dell’ottimo grog. Non mi ubriaco da centodieci anni e sei mesi.
Un cavo è collegato alla mia colonna vertebrale, devo tenerlo ogni volta che sono seduto.

Davanti al mio trono vi è un uomo, pallido, ossuto, vestito di nero, esclama qualcosa sulle righe di prigionieri, entrare, fateli entrare, signore, scheletri, orda, ma non ci do molto retta. Non mi interessa in realtà.
Entra una coppia di scheletri uniti da un femore tra le gabbie toraciche, dice il pallido che sono così da quando li hanno riesumati.
Faccio un gesto con la mano e il femore si polverizza, i due scheletri si staccano e fanno un sincero inchino. Io continuo a ticchettare.

- Tutto bene sua Maestà?
- No, e lo sai perché…
- Non le ho portato abbastanza grog?
- Mi manca un amico.
- Ma ha il potere di spazzare via ogni città del Mon.
- E mi mancherebbe comunque un amico.
- Potremmo rapirle delle belle dame… c’è questo duca che è pieno di giovani figliole, servirà tenerle qui con noi finché non diventano carine… e controllabili.
- Fallo se ti diverte, ma prima cercami un amico.

***
Arrivò una nuova alla Caverna, il pallido lo annunciò dopo qualche giorno, tediosi giorni, giorni che sulle mie dita ossute potrebbero assomigliare a un gestaccio.
- Abbiamo catturato una creatura magica! Non ci crederà… se ci impossessiamo del suo mana saremo ancora più inarrestabili!
Alzai le cavità oculari e osservai il pallido.
- Sicuro? Non è la solita tigre con cinque zampe, o un ratto che ha ingoiato un anello magico?
Fece segno con la mano di far entrare qualcuno e uno scheletro portò una gabbietta.
Dentro ringhiava un cane dal pelo corto marroncino, spelacchiato in certi punti, un collarino di pelle verde di drago e occhi vispi e simpatici, anche se irritato. Sembrava una vecchia pellaccia abile solo a dormire. Eppure aveva forza in tutto il corpo, ora che era stato catturato.
- Ha mangiato dieci dei nostri scheletri!
- Impressionante…, dissi annoiato.
- E… gli abbiamo tirato di tutto, e sembrava solo assorbire i colpi, questo cagnaccio rognoso!
- Quindi il suo potere è fare da scudo contro i colpi? È piccolissimo, non difenderebbe nemmeno un piccolo scudo… poi? Un cane magico? Sicuro non abbia ingoiato un anello?
- Posso aprirlo e vedere…
- Fermo, fammelo vedere più da vicino…
Toccai la gabbietta e lui si calmò, abbassò le orecchie e iniziò a leccarsi il muso.
- Portami della carne.
- Ossa?
- Carne, lo vedi che è tutto pelle e ossa?
- Umana?
Dell’aria sbuffando uscì dai miei denti. Il pallido ordinò a uno scheletro di portare del guanciale di nordico.
Porsi la mia mano al cane, lui la leccò, nemmeno affamato, la leccò per conoscermi. Mangiò di gusto, e già sentivo più calcio del solito nelle ossa. Il pallido si avvicinò.
- Quindi lo apro?
- Skurt… lui è l’amico che cercavo.
- Eh?
- Guarda com’è bravo… Poi sembra quasi che ogni qualvolta si nutra, aumenti il suo potere, lo vedo già più vispo.
- Come lo vuole chiamare, sta bestia? Mostrino?!
- Mostrino, da oggi tu sarai Mostrino e vivrai con noi.
Esercizi sul Fantastico!
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